Come sono nata

In questo posto che si chiama il Mulino Bruciato, io, Giuseppe e Davide ci diamo appuntamento alle 2 e mezza di notte. Vestiti come camionisti (secondo noi i camionisti sono vestiti in tuta, senza badare minimamente all’accostamento dei colori). Io per l’occasione mi sono tirata indietro i capelli con il gel. Dovrei avere una foto da qualche parte.

Non sapendo a cosa stessimo andando incontro abbiamo ordinato anche una gramigna con salsiccia in due (che poi a conti fatti sembravano due porzioni intere). Gli uomini di un tavolo accanto (forse camionisti veri) ci guardano, tradendo una certa ammirazione, chiedendosi se, dopo la gramigna, saremmo riusciti a mangiare tutta la cotoletta. Perché nell’attesa abbiamo anche ingurgitato grissini e panini come se non ci fosse un domani, perché sai, alla fine son pur sempre le due di notte e quando sei sul confine ti scordi la consistenza di tutto e neanche più il carboidrato ti fa paura.

Poi arriva lei, sua maestà la cotoletta: una fetta di carne impanata - MAI di pollo - su cui viene adagiata una fetta di prosciutto crudo completamente cosparsa (qui subentra il dilemma) da una crema di panna e parmigiano o da una riduzione di brodo di carne, burro e parmigiano. Ultima opzione: scaglie di tartufo o senza, ammesso che sia di stagione.



La nostra, di dimensioni innaturali, apparteneva alla versione più aggressiva, panna e parmigiano, senza tartufo. Questo dettaglio avrà un peso non da poco sul destino dell’intero progetto.

Per quanto mi costi ammetterlo, abbiamo finito di mangiare con una certa difficoltà. Abbiamo provato ad alzarci, andare in macchina e tornare verso la città, ma anche solo queste semplici operazioni ci hanno dato la misura di quanto avremmo rischiato se fossimo andati a letto dopo una simile impresa.

“Nun t’aregge de facce tutto er giro dei viali”. Il nun t’aregge è la formula con cui tentiamo quotidianamente di uccidere il nostro istinto di conservazione. È la formula di attivazione dell’imprevedibile, del potenziale, la porta che ci spalanca il punto di vista del destino.

Per chi non lo conoscesse, nun t’aregge è un’espressione desunta dal patrimonio dialettale romanesco che tradotto suona come: “vediamo se hai il coraggio”.

In quel momento onestamente non ci stavo credendo fino in fondo di avercelo, il coraggio. Invece alle 4 di notte abbiamo toccato tutte le porte esistenti e inesistenti di Bologna, 8,10 km (4,26 km²) di buio, visioni e calma. Oltre 12.000 passi di architettura, silenzio, quiete e nebbia. Tutto questo è nato così ed è nato lì intorno.

Davanti a quel tempo e a quello spazio non mi aspettavo altro se non il suo dispiegarsi, non cercavo nulla, una significanza, un senso da rintracciare, una giustificazione. Il fatto che io stessi calpestando quelle strade, accarezzando con lo sguardo quelle superfici, che non smettessi di meravigliarmi per ogni dettaglio e ogni emersione dalla nebbia o dal buio, per ogni riverbero e per ogni luce lasciata accesa dagli insonni, non aveva assolutamente una motivazione funzionale. Ero lì, volevo essere lì e c’ero con tutta me stessa, con tutti i miei sensi.




Da quella notte, abbiamo iniziato a vederci ogni sera, si può dire ogni giorno. L’idea della tipo-topografia, ad esempio, è nata in una di queste passeggiate notturne.

Nel frattempo stiamo cominciando a diventare degli esperti di petroniana, stiamo già sognando di fondare la “confraternita dei petronofili”. C’è un gruppo di bolognesi doc, “gli amici della Petroniana”, che scorrazza per ristoranti urbani ed extraurbani alla ricerca della migliore; facciamo sostanzialmente la stessa cosa ma, ne stiamo facendo un rito quasi mistico, un palinsesto, un varco sensoriale capace di portarci altrove, un LSD stracittadino (rigorosamente a chilometro-zero), un’improbabile eucarestia, una chiave e forse il più lento e dolce tra i suicidi logici. Insomma, forse non l’avrai capito, ma la petroniana è diventata un pretesto per parlare di questo qui-e-ora, che prende forma come le nostre suole hanno ormai preso quella delle strade polimateriche di Bologna.

Ora sono innamorata di quella libertà. Immensamente. Della libertà di non vedere con uno scopo tutti quei mattoni e tutti quegli anni di fatica, di investimenti, di destini, di pianificazioni. La libertà di non sentirmi funzionale e di non sentire funzionale lo spazio. Che fa parte della sua essenza. In qualche modo mi sono anche sentita sovvertita nella mia più intima libertà espressiva, che è la fotografia.

Del vero amore non vorresti cambiare nulla. Così io non voglio scegliere, selezionare qualcosa, un particolare che per qualche motivo ritengo migliore di altri, da catturare. Vorrei che fosse la città a scegliersi, ad autorappresentarsi, a raccontarmi, a scegliermi, ad autorizzarmi. Fa quasi male corrompere quello spazio con la mia stessa presenza fisica. No, non la sto idealizzando, semplicemente non mi sento fino in fondo all’altezza di raccontarla, di affermare qualcosa su di lei, su di me (su di me e lei), e solo per questo ho deciso di farlo. Per questo ho cercato di mettere al centro di questa esperienza e alle scorie di questo incontro l’assenza.

Camminando e parlando, abbiamo iniziato a ripensare ai concetti di assenza e presenza, intrusione e inclusione, partendo da quel che indichiamo, cataloghiamo e desideriamo per decodificare il mondo: la fotografia. Tutti, in quei momenti, ci sentiamo completamente liberi dal desiderio di possedere il reale. Sembra un paradosso vista la mia professione.

Rifletto da molto tempo sul fatto che la fotografia, come ogni altro strumento e prodotto di una cultura, si porta la sua storia e la sua epistemologia. Ed è un’epistemologia e una storia violenta, una genealogia dell’invasione e dell’aggressione (si pensi anche solo alla parola shooting), è un gesto di penetrazione che spesso viola il dolore e la privacy. È la sintesi del maschile. Mi sono chiesta in che modo e con quali mezzi potessi istituire e restituire il femminile in questa storia e nelle sue ragioni, come esprimere e praticare con questo stesso strumento la non-possessione, la non-affermazione sul reale, bensì la gratitudine dell’esserci, la mia cavità, l’abbraccio materno di cui mi sentivo pervasa, la gentilezza dell’ascolto.

In un’istante sono stata attraversata dal ricordo della mia amica Cy Jonsdottir, un’artista transgender figlia di una canadese e di un islandese, che vive da un po’ di tempo a Valsinni (in Basilicata) dove sta studiando la vita e l’opera di Isabella Morra, poetessa cinquecentesca, uccisa dai fratelli per un amore sbagliato. Cy nel giorno della gentilezza, mentre andava a trovare dei suoi amici proprio a Bologna, si interrogava senza risposte sul significato del trauma (solo pensieri leggeri per questa meticcia dei sessi e delle culture) e, al suo arrivo a Bologna, mentre assaggiava cioccolata tra gli stand dell’ennesima fiera in Piazza Maggiore, apprese degli attentati di Parigi e tornò subito a casa con i suoi ospiti per capire cosa stesse accadendo. Nel tragitto verso casa le risultò ancora più surreale la sua riflessione pomeridiana in quel giorno mondiale della gentilezza, mentre attraversava la città ignara e in festa. Il giorno dopo, senza neanche pensarci, sintetizzò con una frase l’essenza di quella folgorazione: “Io oscillo fra il trauma e la gentilezza”, lo disse in piedi, nella cucina dei suoi amici, in via Mascarella. Una sedia rotta di fresco, issata su una dispensa in un angolo, a un paio di metri d’altezza, è stata testimone di quel momento, e sta ancora lì. Quelle parole risuonavano in ogni silenzio da quel giorno in poi, quel mantra è l’unica cosa su cui ha deciso di lavorare da quel momento alla fine della sua vita. Gliel’ho chieste in prestito perché credo che in quell’istante Bologna abbia trovato la sua voce. “Io oscillo fra il trauma e la gentilezza”.

E ci credo bene. È una delle città più traumatizzate del nostro paese. I bombardamenti del 1943 (210 tonnellate di bombe lanciate da 120 aerei americani, 936 morti e 1000 feriti, il patrimonio profondamente sfregiato), la strage in stazione, il 2 agosto 1980 (85 morti e 200 feriti, un orologio ancora fermo, una ferita sul muro e nella memoria di chiunque, nessun mandante e nessun esecutore, sempre gli stessi), le brigate rosse, le stragi, i conflitti del ’77, Francesco Russo, Marco Biagi. Eppure Bologna mai mi ha guardato con diffidenza, mai ha guardato con diffidenza nessuno, tutt’altro, il trauma non l’ha resa né cinica, né inabitabile, mi ha accolto, ci ha accolti e ci accoglierà sempre tutti, sa prendersi cura delle proprie e delle altrui ferite. Ha accolto me, ha accolto noi, le sue porte sono aperte come le braccia di una mamma, ha tolto la chiave dalle sue toppe. Ci sono davvero delle porte di legno nei cardini che chissà da quanto tempo non sono state chiuse. Le ho toccate e si muovono pure!

Da allora ho iniziato a donare il mio tempo, le mie energie, il mio amore, allo spazio di questa città. Avendo cura di lei, e non solo per ripagare la sua dolcezza, ma per donargli un po’ della mia riconquistata libertà. Che fosse anche libertà dalla mia presenza. La amo di quell’amore che forse solo i trovatelli sanno. E per questo di me non troverai altro documento se non quello che stai leggendo.

Di quello che ti farò vedere sarò la parte femminile che accoglie ogni esperienza.

Spero con questo regalo stimoli un sentimento per la conoscenza della città e di desiderarne altra e altra ancora.

Siamo diseducati a farlo, a sondare le nostre mappe. L’ho visto durante il processo di questo lavoro. Le persone ti guardano in obliquo semplicemente perché attraversi lo spazio con un livello di attenzione diverso, che ai loro occhi ti fa risultare un alieno. Perché troppe poche persone sono abituate nella loro quotidianità a camminare, fermarsi in un posto, averne coscienza e cura.

Quello che voglio offrirle e offrirti è solo un possibile racconto, le scorie del modo in cui lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo, insieme, mai soli. E non si può spiegare altrimenti se non attraverso l’immagine dell’intima essenza del nostro agire, il ritratto della mia amata Bologna: una mappa. Una mappa errante e connessa, reale e virtuale (sogniamo il 3.0), che di bidimensionale ha solo la forma, ma non il destino. Questo spazio che pare ci allontani dalla terra ci serve, invece, a tornarvi con una visione e una consapevolezza diversa.

Questo movimento oscillatorio nel tempo e nello spazio, dal basso verso l’alto e viceversa, accompagna tutto il percorso.

Tracciando questo ritratto di Bologna sono partita da un elemento numerologico: il 9 (con i suoi multipli), che simboleggia i 900 anni della sua municipalità (il concives) e che determina la durata dei secondi di un video o il numero delle stazioni di un percorso. Ogni intervento che viene documentato si può considerare un layer, un filtro, un dispositivo, un setaccio (chiamateli come volete).

Il senso del moto centrifugo e centripeto, si riflette anche nell’utilizzo del mezzo. Più la documentazione si allontana dalla città, più il mezzo si volatilizza. Dalla fotografia (declinata in diversi approcci documentaristici) si passa al piano sequenza video, poi sonoro, poi all’unione di questi fino alla rarefazione totale dell’immagine, al puro racconto, al gesto performativo (laddove tutto è esperienza dei corpi in questo modo di praticare e ascoltare lo spazio). L’andamento progressivo dei numeri indica un allontanamento dell’analiticità pur ritornando, inevitabilmente, sulla mappa.

È l’immagine di un progetto di visione che vuole contagiare chiunque sia disposto a farlo, ad utilizzare tutti i sensi per conoscere lo spazio, per attraversarlo e farsene attraversare. È il modo con cui abbiamo sempre conosciuto tutto, camminare, per fare mente locale, per tracciare e misurare lo spazio sacro e lo spazio della vita, per incontrare la fine, per ritrovare un sentimento di gentilezza ed empatia con noi stessi, per incontrare l’alterità, mettendoci a repentaglio, per perderci. Partendo dal cammino e dall’ascolto. Io ho ascoltato ininterrottamente. Per questo il piano sequenza, che sia audio, video, quello puro e semplice della realtà è il mezzo d’elezione. Trovo la bellezza, anche concettuale, del piano sequenza, struggente. È un’operazione al tempo spietata e accogliente, che registra senza limiti la realtà nel flusso dell’intercettazione. Vive in e per quell’unità di tempo e di luogo ma non ti permette di scegliere, non lascia spazio alla “creatività”, alla finzione.

Come vedi il mio amore non si può limitare ad essere rappresentato in un’unica immagine, non si può abbracciare con un solo sguardo. Ma viene dipinto anche sopra la trama del tempo.

Mi immagino come questi singoli filtri possano produrre un’autonomia narrativa propria. E come la loro integrazione generi altra narrazione. Potrebbero essere blocchi di testo che messi in sequenza, in modo diverso, restituiscano potenzialmente un racconto ancora diverso di questo lavoro. No perché non siamo orientati a un famolo strano. Però dobbiamo cercare di trovare una forma linguistica e un modo per condividere tutto il senso di questo lavoro.

Non mi è passato neanche per l’anticamera del cervello di mettermi lì a pensare a un testo del tipo “Questa è un opera site specific/time specific/public art/collaborative practice/arte partecipata/blabla e che tizio bla ha voluto dedicare a blablabla”. No infatti… Agiamo liberando le necessità del momento. L’altro giorno per dire, dovevi vedere la gente. Sicuramente c’era qualcuno che voleva arrestarci, sembravamo veramente due deficienti. Ci siamo messi ad agire in libertà totale. Quello che ci veniva. E c’era questo posto assurdo di speculazione edilizia lasciata a metà. E davanti a noi un campo di macerie. Usciva fuori un orizzonte da cui sbucavano queste cose. A un certo punto Federico e Giuseppe dai lati, mentre io facevo la ripresa, hanno iniziato a lanciare sassi sul cumulo di macerie. In quel momento non è che eravamo tutti lì impostati in modalità “ora facciamo la documentazione etc”. Ma ne è uscita una sequenza di fotografie d'architettura, fatte con tutti i crismi, col massimo del rigore documentario, per nulla in contraddizione con le parallele elucubrazioni mentali assurde e bellissime su un ciclofono.

Gran parte della poesia sta proprio in questo, nella contagiosa voglia di scoprire il corpo della città in cui si vive. Ridonarsi allo spazio, conoscerlo, mapparlo, curiosarci dentro.

Questo invito ad uscire e a guardarsi intorno è anche il legame di sangue con la street art. E’ una forma poetica quanto politica. Ispirare un’eversione dello sguardo. Diventare degli eversivi dello sguardo. Riiniziare ad entrare in contatto con la vita fuori. Anche perché ce lo stanno togliendo quello spazio, credendo forse che non ci serva più. Ce lo stanno togliendo anche con lo stesso mezzo con cui si potrebbe liberarlo, con i cellulari, con il web, con l’anestesia di un perenne stato online. Se la dimensione virtuale diventa l’unico habitat, è comprensibile che ci si disaffezioni al reale soprattutto vista l’attuale, evidente, letargia. Per aiutarsi, per non allontanarsi, per non diventare ancora più inermi davanti alla deriva della geopolitica ci può venire in aiuto il web 3.0. Io ci credo nel web 3.0. Credo alla possibilità data da questo strumento di realtà aumentata, di rientrare nella realtà dello spazio fisico. La virtualità che ci aiuta a ritornare nella realtà e a riscoprirla.

Di fatto ognuna di queste azioni ruota attorno al nostro corpo e a quello della città. Anche quando abbiamo fotografato quello che vedevano le porte all’alba da tutte e tre le cerchie di mura, lo abbiamo fatto comunque con i nostri corpi, svegliandoci alle 5 e attraversando a piedi la città. Ed è in questo spazio che succedono realmente le cose e che le cose possono cambiare.

Se c’è un centro di questo lavoro forse sono proprio le diapositive. Hanno generato una serie incredibile di processi paralleli.

E tutto è nato da quella volta che, tornando a casa alle tre e mezza di mattina, le ho trovate in terra, la nettezza urbana che si stava avvicinando. Fossi passata di lì 20 minuti dopo quelle immagini sarebbero stata spazzata via, e non l'avrei mai potute riconsegnate, un pomeriggio di primavera, a quell'austriaco visionario (mio coetaneo, ma nessuno dei due può permettersi di dimostrare la propria età) che le aveva dimenticate in una tra le tante case lasciate qui a Bologna. Questa è un'altra storia, la più assurda, la più rarefatta. In qualche modo te la raccontò, se avrai voglia e pazienza di camminare con me fino quell'ultima piazza.