#01 • Restare a guardare

Bologna ha tre cerchie di porte. La più piccola, quella che chiude il cuore del centro storico, è la cerchia della Selenite (i nomi sono tutti bellissimi) la seconda è quella dei Torresotti, mentre la più esterna è la Circla. Queste cerchie hanno rispettivamente 7, 19, 20 porte tra quelle esistenti e quelle che non esistono più (a oggi ne resistono 4 dei Torresotti e 12 della Circla).

Noi per primi, noi occidentali, quando abbiamo voluto rappresentare la città siamo sempre partiti da lì. Dalle antiche vedute fino ad oggi l’uomo ha scelto un monumento, una strada o una piazza come epicentro, come sfondo di una veduta, un’incisione, una foto ricordo, di gruppo, un selfie. Ma se l’uomo venisse astratto, se sparisse all’improvviso, se i nostri miliardi di occhi si chiudessero per un istante, quelle porte, quei cardi e decumani, quei punti di vista continuerebbero a guardarsi in un modo che ho sentito il desiderio di scoprire. La necessaria circolarità di questi privilegiati punti di vista suggerisce una totalità dello sguardo, un serrato dentro-fuori che vale la pena interrogare. Per esempio prendiamo la piccola Selenite, con le sue 7 porte, anticamente era lei che determinava cosa fosse il dentro e cosa il fuori, ma poi essa stessa è diventata un dentro, un cuore, quando si è formata la seconda cerchia e così via. La porta è un oggetto che sta lì ed è stato sempre lì dalle prime costruzioni del tessuto urbano. E resta lì come memoria di un dentro e di un fuori, nella forma stessa della città, anche quando non esiste più, quando diventa il calco di se stessa e di ciò che ha separato e osservato.

Ho scoperto con emozione che la Selenite è abbracciata simbolicamente dalle 4 croci che nel IV secolo sant’Ambrogio mise a protezione della città. Queste sono indicate da lapidi che corrispondono alle croci originali, ora conservate a San Petronio. Ho lasciato quelle lapidi alle mie spalle e ho fotografato ciò che osservano. Insomma, voglio tentare di immedesimarmi, essere il potenziale occhio diffuso della città, che resta a guardarla ostinatamente, voglio immergermi nel come, dove e cosa la città vede in questo esatto momento. E c’era un palo, anche un muro. Quello che quel fornice ha visto nei secoli, chi più chi meno, è un mondo, uno spazio, sempre in trasformazione, sempre lo stesso. Ho pensato che il sistema degli assi della città e delle sue porte potesse quindi produrre inevitabilmente una sua autorappresentazione, qualcosa che mi autorizzasse alla visione (per dirlo con Alessandro) ma non di più, che non mi consentisse di esserne fino in fondo autrice. E questo mi fa sentire ancora più libera, perché la libertà è anche abitare e imparare ad osservare ciò che ci è altro, saper spostare il proprio punto di vista fino a perderlo, trasformarlo in punto per una vista.

Quello che ho fatto è sforzarmi il più possibile di abbassare il mio volume, farmi semplice vettore portatore insano di un oggetto che registra la realtà in e da un dato punto, che però non abbiamo scelto noi. Più che lo sguardo abbiamo determinato l’ottica con cui scattarle. Cercando il più possibile di restituire una visione abbastanza approssimabile a occhio umano. Così come sono intervenuta lo stretto necessario nell’inquadratura, ho cercato, nell'interpretare lo sguardo delle porte ancora esistenti, di liberare anche il formato. Vedete che le immagini a colori sono tonde? Quelle immagini sono tonde anche in seguito a una riflessione teorica sulla fotografia. La fotografia è tonda non è rettangolare. Il taglio rettangolare e quadrato è un retaggio del Rinascimento, è la quadratura del cerchio, la sintesi della vertigine occidentale. Ce l’ abbiamo in mente tutti la questione sul punto di fuga, la prospettiva, Brunelleschi, l’uomo al centro del mondo e compagnia? La camera obscura altro non è che la prosecuzione, con altri mezzi, di questo patrimonio spirituale e culturale. Per cui la forma rettangolare della fotografia è una prassi, una convenzione, un’abitudine, un’esigenza produttiva e riproduttiva, un'ennesima violenza (di cui almeno dovremmo essere coscienti). Queste immagini, proprio perché sono una scrittura automatica della città sulla città, devono esserlo anche sul piano ottico. Detto ciò ho comunque deciso di differenziare la visione delle porte esistenti da quella delle inesistenti. Le prime, sono un mosaico a colori di 13 immagini digitali, le seconde, delle immagini in bianco a nero a banco ottico (l’archetipo resistente della macchina fotografica, quella che ci si mette il panno in testa per sbirciare cosa sta guardando, rigorosamente al contrario). Ebbene si, questi dinosauri ancora esistono e, oltre a soddisfare qualche nostalgico 2.0, vengono usati nella fotografia d’architettura per i vantaggi che i loro “corpi mobili” danno alla correzione delle aberrazioni prospettiche. Non è questo il luogo per simili pistolotti tecnici, ti basti per ora sapere che esistono e che si usano proprio per fare ciò che ho fatto, ancora, dopo oltre 150 anni, come avrebbero potuto realizzarle i Fratelli Alinari, ma senza automobili. Ciò che non esiste resta impigliato su una grande e dettagliatissima pellicola analogica. Ciò che esiste, è una grande e circolare immagine digitale. Tutto questo insieme, da solo, costituisce un corpus di 96 visioni automatiche della città. Ma è solo l’inizio.


Un po' di numeri > 14.3 km, 46 porte per 96 punti di vista sulla città storica


Cerchia01_La Selenite
Cerchia02_Dei Torresotti
Cerchia03_La Circla
Croci di Sant'Ambrogio